di Tiziana Ravenna
Ricordo ancora la prima volta che vidi le Tre Cime di Lavaredo, 15 anni fa oramai.
Erano le mie prime vacanze in Dolomiti. Esteticamente affascinanti e impressionanti, le fotografai da ogni prospettiva. Allora non mi sarei mai immaginata che un giorno ne avrei potuto affrontare la salita!
E invece, in una fredda mattina di fine luglio, mi ritrovo col mio compagno a percorrere i ripidi ghiaioni alla base delle sue inquietanti pareti Nord, in un silenzio quasi irreale. Cassin e Ratti, nel lontano agosto del 1935, correvano furtivi in mezzo alle nebbie, cercando di anticipare i tedeschi Hintermeier e Meindl, per risolvere il più grosso problema alpinistico dell’epoca: la prima salita della parete Nord della Cima Ovest di Lavaredo, parete la cui metà inferiore si presenta come una muraglia giallastra che sale strapiombando fin sotto una volta di tetti immensi che sembrano scoraggiare ogni tentativo di scalata. Anche noi corriamo… ma per affrontare la via cercando di non avere altre cordate sopra! Invece, quando alle 8 arriviamo all’attacco, non siamo soli: davanti abbiamo due ragazzi polacchi e dietro due spagnoli; ne approfittiamo per rispolverare le nostre conoscenze linguistiche, non senza risvolti anche comici!
Cominciamo a salire e, veloci, arriviamo ai tiri chiave, quelli che più io temo. Il vuoto intorno a noi è davvero assoluto, davanti i tetti e gli strapiombi sembrano impossibili. Pensiamo a Cassin, non alto di statura, e ci stupiamo vedendo quanto i chiodi siano infissi lontani in questo tratto. Pensiamo poi all’attrezzatura rudimentale di allora, ai moschettoni di ferro, ai cunei di legno, alle corde di canapa, alle asole di cordini che segavano i piedi, agli scarponi… l’impresa fu davvero straordinaria!
Con non troppa difficoltà oltrepassiamo il tratto in cui Cassin, per fare 40 metri in orizzontale, impiegò sette ore, volando più volte per piantare un chiodo sul lastrone che lo sovrastava, e arriviamo al cosiddetto ”traversone”, il punto considerato di non ritorno dalla via. Allora lui e Ratti furono lì sorpresi dalla pioggia e dalla grandine…noi non vorremmo fare la loro fine, dato che il meteo prevede un peggioramento a cominciare dal tardo pomeriggio, e quindi cerchiamo di perdere meno tempo possibile.
La testa urta contro i tetti sovrastanti, chiodi marci appena infissi sporgono lontani gli uni dagli altri, alcuni, fuoriusciti, sono attaccati a cordini sfilacciati che spenzolano al vento noncuranti del vuoto… in mezz’ora ci lasciamo alle spalle questo tratto duro. Ma le difficoltà non sono finite! Quasi ci sorprendono altri due tiri ben più impegnativi dal punto di vista tecnico e una doccia fredda nell’attraversare il nero colatoio al centro della parete! Saliamo ancora qualche strapiombo duro (non finiscono mai!) e, all’improvviso, come per incanto, tutto diviene più semplice, la parete ritrova la sua verticalità, le fessure, i camini; la roccia diventa compatta e grigia. I polacchi davanti a noi tirano dritti, trovando difficoltà ben superiori alle nostre, che stupiti, avanziamo veloci seguendo la linea logica, ma nascosta, percorsa dai primi salitori. Cassin e Ratti impiegarono tre giorni e due bivacchi per compiere l’impresa; noi alle 17 siamo sulla cengia finale. Le nuvole sono ancora lontane, il tempo ha retto. La salita è nostra! Scendiamo con calma in mezzo a sfasciumi ed esili cenge, per la via normale…e quasi ancora non mi rendo conto! Poi davanti a noi appare il rifugio Auronzo e i grandi parcheggi che lo circondano, siamo tornati alla ”civiltà” e alla realtà di tutti i giorni…
Rimane in noi il ricordo della stupefacente logicità di questa impegnativa via, che percorre l’unico tracciato fattibile per quei tempi, attraverso una parete non troppo solida e sorprendentemente aggettante… Davvero complimenti all’intuito e all’ardimento del grande Cassin!
30 luglio 2005
Dolomiti Orientali, Tre Cime di Lavaredo
Disl. 450 m, Svil. 550 m, Diff. TD+ (VIII-/A2)